André Komatsu (1978, San Paolo, BR) entra nelle opulente sale tardo seicentesche di Palazzo Pamphilj insinuandosi dalle fondamenta, come un fruscio di sottofondo strutturato. Nelle stanze della Galleria Cândido Portinari, Komatsu esplora le complicate intersezioni visuali tra arte e vibrazione, tra rigogliosità e rigore, tra orizzontalità e proiezione ortogonale, tra disturbi percettivi e ricostruzioni distribuite.

Ruído Branco, letteralmente rumore bianco, segna la capacità del sistema visuale di rilevare correlazioni spazio-temporali attraverso modelli statici, corrispettivi geometrici degli spettri entro i quali si muove e spande il fenomeno del rumore bianco. Rumore ad estensione spettrale illimitata. Questi schemi sull’individuazione di una visibilità non-atmosferica del rumore consistono nella combinazione di una gamma di punti che uniscono elementi affidati ad uno spazio e ad un ritmo correntemente calcolabili. Qualsiasi configurazione di interferenza del rumore bianco infatti non contiene mai punti di riferimento che possano rilevare dislocamenti certi delle sue fonti, ma ne diventa essa stessa sorgente di destabilizzazione. Per questo motivo Ruído Branco si caratterizza come un percorso suddiviso in riquadri prospettici aperti, proiezioni di sequenze e di frequenze che poste le une accanto alle altre si identificano spontaneamente come singole, sebbene si dispongano nello spazio a raggera, in qualità di anomalie dall’interferenza controllata.

Sono sempre alla ricerca di soggetti della mimetizzazione percettiva creata dal rumore bianco, rimarca l’artista, di come era strumentalizzata in guerra, nei sistemi dittatoriali dell’America Latina e, più in generale nel mondo. Utilizzando questo procedimento, riproducendo il rumore bianco per persuadere, confondere gli ostaggi in prigione, impiantando nelle loro menti una nuova prospettiva di esistenza.

Nella serie Educaçao basica, ad esempio, ho raccolto sacche di plastica usate, che erano state utilizzate come contenitori per sabbia e malta, materiali fondamentali per le costruzioni civili, e ho cominciato a focalizzarmi su alcune parole, alcune lettere sovrimpresse, così come sui simboli che si trovavano in superficie, suggerendo un altro punto di vista dell’atto costruttivo. Organizzazione dello spazio entrata nelle nostre vite come un fruscio costante che condiziona il nostro corpo, dirigendo e conformando su di essa il pensiero.

Ruído Branco, a qualche giorno di distanza dalla partecipazione di André Komatsu alla 56. Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo All the World’s Futures, si evolve come tutti i sistemi biologici e compositivi alla presenza di un rumore costante, capace, allo stesso tempo, di ignorare quel medesimo segnale che lo definisce, per poi, a sua volta, propagarsi. Effetto descritto come un sistema al quale appartiene un colore nel momento in cui il quantitativo di energia in differenti frequenze non si diffonde uniforme per trasmettere dati estensivi, talvolta destabilizzanti.

Il rumore bianco, infatti, è un particolare tipo di rumore caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. Viene definito bianco anche per analogia con il fatto che una radiazione elettromagnetica di simile spettro all’interno delle banda della luce visibile apparirebbe all’occhio umano come luce bianca. Nella pratica artistica di André Komatsu, invece, il rumore bianco non esiste: si tratta di un’idealizzazione teorica, poiché nessun sistema è in grado di generare uno spettro uniforme per tutte le frequenze esteso da zero a infinito, mentre nelle delimitazioni reali dei suoi lavori il rumore bianco è al più riferibile ad un intervallo di frequenze (campiture bianche a banda finita o limitata). Si presenta, così, spesso, come uno spettro compositivo con caratteristiche simili al rumore bianco, ma con ampiezza proiettiva minore rispetto alle basse frequenze, fino ad azzerarsi alle frequenze maggiori. E il rumore bianco, identificabile anche in qualità di suono bianco, non viene mai esattamente udito, quanto piuttosto visualizzato come un intervallo di superficie.

Benché non esistano sistemi visuali, identificativi univoci di riferimento, per analogia, dunque, viene associato al colore bianco perché rappresenta la tonalità che contiene l’intero spettro di colori di luce e, allo stesso modo, il rumore bianco viene creato utilizzando l’intero spettro di frequenze che l’orecchio umano può udire e non può udire, alterando talvolta ogni altra percezione, anche quella del dialogo tra la coscienza e la nostra interiorità.

Il rumore però non contribuisce a generare casualmente possibilità alternative, il rumore interferisce con le decisioni e le rende più difficili da prendere, giocando anche un ruolo d’intromissione, nella forma di un rumore d’inquietudine, di sottofondo.

Esistono comunque valorizzazioni positive del fenomeno. Livelli di frequenze del rumore bianco nell’universo, sono stati rilevati come tracce del processo di genesi della creazione cosmica, definendo una banda lineare stocastica che non è stata sopraffatta dal caos: la cosiddetta entropia positiva.

Lo sviluppo statico di Ruído Branco si manifesta attraverso una visualità non-mimetica; nell’arco della cattura di un suono, elemento sfuggente che ancora resiste ai tentativi di fissazione. L’oggetto sonoro di André Komatsu indica qualunque fenomeno acustico dotato di contorni precisi e riconoscibili, e su di esso costruisce una teoria propriocettiva, di dislocamento del sé. Il punto di partenza, in questo caso non è la sinusoide, la forma d’onda del suono più semplice, ma un lungo lavoro di somma o sottrazione di molteplici sinusoidi, composizioni che creano timbri complessi e che tagliano la forma seguendo princìpi di tipo matematico, ortogonale.

Tra le campiture velate di Mérito (2014), che insistono sul medesimo angolo fino a farlo perdere, e le ombre cave, appena accennate di Contra Regra 3 (2014) ogni sequenza correlata può convenientemente essere mascherata con un avvicendamento, un intervallo spaziale incongruente, che addirittura forza la realtà a presentarsi sotto forma di simulacri massoni (Educaçao basica 4,2015).

In ultimo, quando si prende in considerazione ogni singola armatura, risulta impossibile scoprire se la sequenza visuale apparterrà all’invisibilità del rumore bianco o all’emersione di una struttura correlata, fondendo i due registri nel piano di pensiero della sinestesia. Allora la differenza emergerà solo nella correlazione spazio-temporale fornita dalla posizione dello spettatore, nei confronti del percorso, come in Contra Regra 2 (2014).

Ruído Branco risulta dunque essere uno strumento di misurazione della soglia che introduce il rapporto segnale/rumore, quantificando esteticamente la performance del rilevamento attraverso il contrasto costante tra livelli coscienti e subliminali di percezione della luce, nonché dello spazio. L’ampiezza delle superfici delimitate, tra corde, chiodi e sacche di plastica mette in relazione la potenza del segnale vibratorio di un confine rispetto a quella del rumore in un sistema di acquisizione, elaborazione o trasmissione dell’informazione compositiva dei lavori.

Ruído Branco partendo dalla delineazione di un territorio sinestesico ricorda come ogni rivoluzione, ogni sovversione debba partire da un contesto di distruzione radicale delle barriere, architettoniche o metaforiche, urbane o mentali che insistono sulla società esistente. Troppo rumore, infatti, è sempre deleterio e può introdurre errori casuali durante il processo di immagazzinamento mnestico del tempo. Per accettare questa distruzione rivoluzionaria si deve compiere un gesto che a partire dalle fondamenta arriva ai risvolti più umbratili dei registri neuro-scientifici.

Ogni volta che tendiamo ad opporre resistenza alle forze radicali della distruzione, tendiamo a rivelare territori compassionevoli e nostalgici nei confronti del nostro passato e forse anche più verso il nostro presente a rischio, passibile di errate trasmissioni della conoscenza e della memoria. Il rumore bianco si presenta come la medicina più potente per contrastare compassione e nostalgia, indicando la presenza di una soglia dell’atemporalità nella rivelazione di gabbie percettive.

Il linguaggio scultoreo dell’astrazione geometrica è qui basato su un uso di forme prospettiche poste in uno spazio non-illusionistico e combinato in composizioni non-oggettive, evolute come logica conclusione della destrutturazione e della riformulazione di convenzioni prestabilite della forma e dello spazio. André Komatsu sovverte la tradizionale descrizione della realtà facendo affidamento sull’imitazione delle forme e del mondo appartenente al contesto visuale nell’illusionismo della prospettiva spaziale. La fase analitica degli interventi di Komatsu rende disponibile all’artista la planarità della sovrapposizione fontale di superfici assieme da una griglia lineare. La fase sintetica invece prevede la schematizzazione delle forme assieme all’introduzione di spazi astratti e di elementi costruttivi della composizione. Questi tre aspetti diventano la caratteristica fondamentale della geometria astratta di André Komatsu. Inoltre, la libertà di sperimentare con differenti materiali e la relazione spaziale tra le varie parti compositive enfatizza le figure di superficie, come vettore degli elementi applicati a muro, nonché, come realtà fisica di esplorazione di forme e materiali. In Ruído Branco il ricorso alla circoscrizione fisica emerge come un fruscio appena accennato, attraverso il processo di purificazione delle vestigia della realtà visuale, incentrata sull’inerente caratteristica di ampliamento dimensionale di una scultura muraria.

Questo processo di evoluzione di una realtà puramente compositiva costituita da forme di elementi geometrici ha assunto differenti espressioni stilistiche in André Komatsu. Il suo lavoro infatti intende convogliare la realtà assoluta, costruita seguendo il mondo di forme pure e geometriche, sottolineando tutta l’esistenza dell’invisibile e facendo riferimento al principio verticale-orizzontale di linee e colori dai gradienti puri. Il processo di sistematizzazione di André Komatsu richiede l’intervento referenziale della realtà, chiamata a farne parte attraverso i contenitori di materiali edili, svuotati di sostanza e significante, come se fossero il vero significato, linea di demarcazione transitoria che forma campi ampliati, divisi dai diversi spessori dei tracciati.

Nelle strutture acustico-scultoree di Ruído Branco i piani rettangolari, formati dalla pluralità delle linee rette, in opposizione ortogonale fra loro e necessari per determinare alcuni involontari accenni al colore, si dissolvono in virtù del loro carattere uniforme e il ritmo ne emerge da solo, abbandonando i piani, come un nulla.

Nella percezione di un suono dunque bisogna saper vedere in ogni cosa la nitidezza, la certezza, la precisione, l’equità, la distanza rettilinea, la velocità che si identificano con la quiete e soprattutto con la presa di coscienza, in cui il colore viene visto come depurato dal non-colore, bianco, nero o grigio, perde il suo aspetto naturale e appare definito in pictografie massone, industriali dal piano rettangolare che essi occupano e che si forma inevitabilmente attraverso l’opposizione delle molteplici linee rette. Lo statuto dell’opera d’arte qui concede alla linea e al colore un’esistenza diffusa grazie all’interdipendenza con la ricerca sul rumore bianco, rendendo tutti i componenti di questa personale indipendenti. Nel senso che essi non sono né oppressi né deformati dalla geometria particolare, ma formano in assoluta autonomia una limitazione appropriata alla loro natura entropica.

Base hierárquica [Hierarchical Basis] (2011–) is a subtly site-specific work that André Komatsu has mounted in various countries, each time using common drinking glasses, wineglasses and construction materials readily available in that locale to set up an installation consisting of various concrete blocks stacked atop drinking glasses that are apparently cheap and yet strong enough to hold up under the weight, while splintered pieces of a wine glass bear witness to the fragility of its elegance. Many of the titles chosen by the artist are charged with Foucaultian resonances, and Base hierárquica, although it is not one of the most explicit ones in this sense, is certainly among those that best exemplify the way that Michel Foucault’s theory of the microphysics of power is not only at play in the titles, but lies at the core of the artist’s concerns and even, it could be said, underpins his worldview. The discourse on power and on latent or active social conflicts permeates the materials he uses, influences his choice, and in a certain way constitutes the true raw material of André Komatsu’s installations. In this sense, the artist’s recurrent use of cast-off fragments, leftovers, and scraps found in dumpsters, since at least the time of the action-performance Projeto – Casa/entulho [Project – House/Rubble] (2002), also reveals the desire to subvert the values conventionally attributed to the materials themselves and, more generally, to the elements of everyday life – thus instating, to cite the title of another of his artworks, a Nova Ordem [New Order] (2009).

The works of the series Três vidros [Three Panes of Glass] (2012), featured in this exhibition, emphasize the value of fragments, since they are the basis for constructing modernist architectures, isolated on absolutely flat lots, in perfect keeping with modernist precepts. The transformation of icons of the golden age of Brazilian architecture into conglomerations of debris and scraps can be interpreted as a denunciation of the violence implicit in the constructive process, or of the unique qualities of this architecture, whose democratic dreams were shipwrecked on the shoals of its progressive approximation with the social, political and economic elites, which it ultimately validates and preserves behind its clean and simple forms. These are not the only artworks in the exhibition that are born from the tension between natural, fragmented and apparently disordered elements on the one hand, and precise and rigorous forms on the other. But this opposition is in a certain way illusory, as demonstrated by the crooked, raw tree branch that nevertheless fits perfectly as a leg for a precisely square tabletop (Cooperativa antagônica [Antagonistic Cooperative], 2013), or even the image of a tree trunk printed on an anonymous, simple sheet of paper, which nearly seems to be part of the wooden beam that secures it against the wall, at its top (Campo aberto 4 [Open Field 4]). With this tension between opposite poles (natural and artificial / geometric and organic / raw and finished, etc.), André Komatsu’s artworks constitute open fields, as though they were yet about to take place in front of the viewer, instead of being presented in an already finished state.

By directly or indirectly resorting to the technique of anamorphosis (Anamorfose sistemática 3 e 4 [Systematic Anamorphosis 3 and 4]), the artist emphasizes the need for an interpretation which is political or in any case metaphoric for the exhibition as a whole. The key for the comprehension of an anamorphosis is almost always a change of vantage point, a displacement that allows us to look at things from another point of view, allowing us to see that what appeared obscure and abstract is in fact perfectly logical and understandable, and this is precisely what the works featured here require: a change in one’s point of view, the condition of being open to a different reading, to be understood in another way. The bricks, the architectures and the clocks that converge on André Komatsu’s artistic universe are, beyond all appearances, invitations to social resistance. A work such as Time Out (2013), for example, in which a stack of bond paper prevents the hands of a clock from following their course, is above all a social and political manifesto. The metaphorically charged act of stopping time would be impossible for a single sheet of paper, and the power of this artwork, beyond its poetic beauty, consists precisely in demonstrating the revolutionary power that springs from the union of individual forces, able to achieve otherwise impossible gestures.

And this same charge appears in the work which – due to how it escapes from the show’s prevailing logic of tension – can be considered as the master key for understanding this exhibition: Esquadria disciplinar / Ordem marginal [Disciplinary Framework / Marginal Order] (2013). Apparently, the contraposition between different orders is absent here: the two groups of plates, the second one resulting from the “leftovers” of the first, both obey the same rigorous and deductive logic. But some plates are still left over, and return, like a kind of virus, infringing on the bidimensionality that seems to dominate the work, jutting out from the wall and proposing, in the words of the artist, “another model of coexistence.” In André Komatsu’s open universe, the very concept of order is, one could say, marginal, rather than central. Order, as it is conventionally known, is just one of the possible ways in which the world can be manifested – and it is not necessarily the most easily understood way. It is enough to take a step, to look at things from another angle, and what at first sight appeared ordered can be revealed as disordered, what looked chaotic can, ultimately, be seen in its flawless logic.

André Komatsu´s project is less a finished work then a process that develops itself in the time. It doesn´t become a narrative, since he doesn´t have characters or events that have a relation to each other to form series. It is only about two moments: the first one, the fire on the structure of a small wooden house constructed outdoors and, the second one, the collect of leached ashes and their transference to a box which is inside of the exhibit space.

The work does not form a closed system where the change from a state to another one always become clutter, although part of the house on fire disapears in heat and smoke. The energy loss, the destruction of the architectural structure and its tendency to ruin are important in this process. In the meantime, instead of the valuation of the decline or destruction, the artist interests are in the continuous change process of objects and space. After freely occupying the building´s exterior, the residues of this process are impregnated in the clothes of the public. And after carried to the “Paço das Artes” interior, any air moviment tends to make the ashes continue to disperse.

The spatial premises of the Komatsu´s work are not only a quantitative understanding of the space, like if it was constant, fixed and completely measurable by some unit of measure. Otherwise, its notion takes place in a space where nothing is against the time. It is exactly about a mobile, qualitative space that tends to be perceived in its ‘come to be’. The architectures projected by the artist are always uninhabitable or inaccessible. They are not comfortable spaces, conceived as ideal proportions inspired on the human body´s scale. Are pressed, barren places, and, before searching a harmonious relation with the spectator, or considering a participation, they are aggressive and refuse any direct contact.

In one of his videos, where the artist collects ruins and fragments of constructions from the streets around the city and tries to add them to his own body using backpacks or pockets, it is evident the inappropriateness between the human body and the rude substance. Even though, in some works, he tries to attribute a new function to the rubbish, it is clear the opposition between these dejections, the architectural spaces from which they result, and its relation with the body.

The inappropriateness of certain constructions when related to the body had been formulated for the artist in some kind of na inhospitable sentry box, a control and war architecture that Komatsu projected for its individual exhibit in the Cultural Center São Paulo Program of Expositions. Closed in itself and exactly inaccessible, the work was about a threatening space that camouflaged itself with the white of the panels made to organize the exhibition.

In the meantime, while in this experience the asepsis was a disguise strategy, here, in Time = action/space, it can be understood in inverse way. The wood combustion can also be a hygienic cleaning way, but the transposition of the resultant residues of this process to the inside the exhibit space inverts this process. The work functions as a contaminating agent who takes the world´s life dirt to inside of the aseptic and neutral exhibition space.

Working with the relations between the action in the space and its correspondence with the time, Komatsu seems to understand the pair construction and desconstruction as non-separable things. Before creating frozen and definitive spaces by fixed relations, he deals with the transformation process of the ruin in constructions and the inevitable action of the time that tends to corrupt them and to degenerate them.

The representation of constructive processes and constructions in the André Komatsu´s work always contains ruins and the desconstruction idea. One of the usual procedures of the artist is to collect rubbish from the streets, dumps-cart and garbage cans, and to attribute a new function for what was dejection, either to use it in three-dimensional and installations production, either to take it as support of architecture drawings.

Generally, the parts incorporate, invert and return as a problem the characteristics of its supports and referentials. Therefore, fragments of masonry receive contours of pencil from an imperfect wall or from a high standard building, and the house model, with the wooden sidewalls on the ground, receives a stack of gravels. In this kind of dialectic of the building site, to construct presume the falling of structures. And what remains of the demolition get back to raw material in works that comment the ways of use and occupation of public spaces and particular terrains in the city.

The artist´s show at the Cultural Center São Paulo transposes to the exhibit area the beginning of constructing to destroy, and vice versa. “Kamikaze” (“or for all those that had believed”) represents the impact of the collision between two tipically brazilian toy cars (called “rolimãs”) by a stack of cardboard, lath, plastic bottles, etc. The “shock” between the cars guided by the feet becomes a purely visual onomatopoeia, not-linguistics: the CRASHHH! from the comics balloons, with the wreckage. Built in the crossing between two ramps of the space, the work restricts the visitors´circulation and insinuates a state of exception, who knows, the war atmosphere as the title suggests.

The belligerence is sufocated also in the voids that cut the clinical luminosity of “Alasca”, installation where Komatsu builts a rough shelter with the asepsis of the “white cube” in its maximum, what, vice versa, confers military meaning to the generic space devoted to the art. In fact, the bunker is a cube as construction, white, of concrete blocks, but it is also the place of protection and attack, with spy-holes on the four lateral faces, installed in an illuminated room until the saturation of the fluorecent light.

Everything excessively white, a comparable whiteness – by the artist induction – to an igloo projected in straight lines, stuck into the snow of the Alaska´s infinite landscape. From inside the shelter,
where nobody enters, would only be possible to see the exterior through the openings, made to the positioning and the firearms aiming. Without evidence of conflit, under a deaf noise, the war architecture seems to accomodate well in an art gallery. Or not, it would be the art at risk, under fire-friend target? If yes, the exposition is completely dedicated to those that had believed.
José Augusto Ribeiro, 2006.

José Augusto Ribeiro is a art critic and master´s student in Art History at the School of Communications and Arts of the University of São Paulo. He integrates the Center of Research in Brazilian Art of the Department of Visual Arts of the School and currently he works in the Documents of 20th Century Latin American and Latino Art project, co-ordinated by the Museum of Fine Arts, Houston.

Os narradores nollianos possuem uma espécie de “corpo sombreado”, ou seja, mesmo que se saibam mutilados, deambulam pelas cidades com se ainda possuíssem os pedaços que faltam. Por isso conservam um “repertório de imagens”, de estereótipos que anunciam, continuamente, a cadeia de vocábulos e atos repetitivos.

                                                                                (SENNETT. Op. cit., p. 225)

Uma reta de mil metros com uma curva  na ponta, entra no lado esquerdo de dois muros, voltados pra parte interna de um fosso de três metros de profundidade, que dá para um dos quartos, cada um, com portas gigantescas e  janelas que dão pro lado de dentro da casa a quinze centímetros do chão.

Da sala, dá pra ver no final do corredor, um piso com dois palmos de altura, mais uma polegada e três passos até chegar numa base onde sai uma escada, sem degraus, que afunda chão adentro e se encerra nela mesma. Se a parede sobe junto ao piso alcançam o primeiro andar, ambos cobrem um teto que se abre para as mesmas janelas que dão pro jardim, é possível dobrar a porta do porão e empurrar o muro modificando o espaço do lado da casa, quase que invadindo um terreno ao lado, acho que de uma fábrica ou um hospital, não sei…

Noves fora cinco, ou quatro operações

1.um corpo que o braço é um martelo e os olhos são placas de vidro, cuja parte de trás da perna não dobra, mas é ajustável por um mecanismo de madeira e rolimãs que o permite arrastar-se com desenvoltura. Os dedos e os cabelos são do mesmo material do teto da casa, uma espécie de ímãs revestidos com borracha.

1.ao se colocarem na rua, seu lugar de origem, o corpo e a casa, se confundem com uma paisagem que é uma espécie de espelho, desses que alteram as dimensões da imagem, essa imagem é projetada numa malha esticada  forrando a terra e  sufocado-a. A violência do tecido/sentido, pressiona o chão deixado-o inchado, pulsante, prestes a explodir. E quando explode, a cidade continua, torta, quebrada e estruturada a partir de rachaduras que a redesenham.

1. 1. o corpo, desmontando-se no chão se arrasta até a avenida, como um móvel de madeira montando-se e desmontando-se pela cidade (digo de cal e éter), levando a casa nas costas e arranhando a rua.
2. 1. uma espécie de suspensão frente às certezas do artista que autoriza a fragmentação dos restos úteis e os recoloca na paisagem, usa de uma ‘composiçao’ que nos move como um detalhe ampliado. Pois, o detalhe passa a forçar uma composição mole, porque há fumaça e lama, e como fôrmas incompletas, recebem a massa acrílica de uma avenida que se alarga até o fim do corredor da casa suspensa.

somar: no trabalho de André komatsu, o peso sobre o solo não se calcula em números, nem em pensamentos e palavras sobre balanças, mas, na ‘sub-tração’ da carne, na ciência do espaço e no questionamento da pedra.